Studio Legale
avv. Paolo Solimeno



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consulenza, assistenza e difesa in ogni questione e controversia di diritto civile, del lavoro e previdenziale

La mia attività pubblica riguarda il diritto, lo studio e la diffusione della conoscenza critica dei diritti fondamentali e delle tecniche di tutela, anzitutto attraverso l'attività di consulenza e di assistenza e difesa nel processo e nel confronto stragiudiziale, ma anche in attività di condivisione e approfondimento su alcune tematiche di rilevanza sociale e culturale.


Mi interessano in particolare il diritto costituzionale, il diritto del lavoro e della previdenza sociale ed il diritto civile in generale.


Sono membro del Collegio di garanzia statutaria della Regione Toscana, organo previsto dallo Statuto della Regione Toscana, dal dicembre 2015.


Faccio parte dell'esecutivo nazionale dell'associazione dei Giuristi Democratici da ottobre 2017 www.giuristidemocratici.it - info@giuristidemocratici.it; l'associazione è attiva anche a Firenze ai miei indirizzi e alla mail giuristidemocraticifi@gmail.com


Sono avvocato dal gennaio 1999, iscritto all'Albo dell'ordine degli avvocati di Firenze, ordineavvocatifirenze.eu



Contravvenzioni per ripetute violazioni dello stesso divieto: non si applica la continuazione, ma il cumulo giuridico (GdP di Firenze, sent. 22 luglio 2020)

Nell'ambito della contestazione di una serie di contravvenzioni per infrazioni dello stesso divieto è noto che la giurisprudenza neghi l'applicabilità del principio della continuazione (Cass. sent. 26434/2014). Ma il Giudice fiorentino, con una compiuta argomentazione fondata sulla giurisprudenza in materia (in specie C. Cass. ord. 22028/208) e sulle particolarità del caso (notifiche di infrazioni tutte relative a violazioni della stessa porta telematica e tutte successive all'ultima infrazione impugnata), ha ritenuto di poter applicare l'istituto del cumulo giuridico irrogando una sola sanzione "aumentata fino al triplo", confermando così formalmente le sanzioni, ma non caricando il contravventore della moltiplicazione delle sanzioni.

Il Comune di Firenze è stato più volte criticato negli ultimi anni per aver sanzionato gli accessi in ZTL e in corsie preferenziali con innumerevoli sanzioni a fronte di effettive violazioni rilevate da telecamere correttamente installate e segnalate, ma senza la contestazione immediata dell'infrazione (cosa pure legittima, nel rispetto degli obblighi di segnalazione e rilevazione), bensì notificando entro il termine dei 90 gg. di di cui al CdS le contravvenzioni. Tale condotta della Pubblica amministrazione espone il contravventore in errore ad avvedersi di aver commesso un'infrazione solo quando riceve la prima notifica del verbale di accertamento e spesso dopo aver violato per decine o centinaia di volte la stessa porta telematica. 
In un'interessante sentenza di agosto 2020 si è ottenuto il riconoscimento del principio del cumulo giuridico superando il divieto di cui all'art. 198 II comma CdS sulla scia del principio affermato da C. Cassazione, sent. 22028/2018.
Si era argomentato che ai sensi dell'art. 201 C.d.S. “Qualora l'effettivo trasgressore od altro dei soggetti obbligati sia identificato successivamente alla commissione della violazione la notificazione può essere effettuata agli stessi entro novanta giorni dalla data in cui risultino dai pubblici registri o nell'archivio nazionale dei veicoli l'intestazione del veicolo e le altre indicazioni identificative degli interessati o comunque dalla data in cui la pubblica amministrazione è posta in grado di provvedere alla loro identificazione”; e tale disposizione è stata introdotta dopo che C. Cost., sent. 198/1996, aveva ritenuto illegittima la disposizione che faceva decorrere il termine dal momento dell'identificazione del trasgressore, lasciando quindi all'amministrazione piena discrezionalità nel determinare i termini del procedimento.
Ebbene, finché il trasgressore non è raggiunto dalla notifica, se si accetta che ogni ripetizione del suo comportamento sia legittimamente sanzionabile finché l'Amministrazione è nel potere di rilevare e tempestivamente notificare i verbali di accertamento, si espone il conducente di un autoveicolo al rischio di una diversa conseguenza delle sue azioni a seconda che la verbalizzazione in ufficio e la notifica avvengano, sia pure nel rispetto del nuovo art. 201 CdS, in tempi ravvicinati rispetto all'infrazione, ovvero distanti, prossimi alla scadenza. 
Una gestione del traffico improntata ai principi della chiarezza, della trasparenza e dell'efficacia preventiva potrebbe risultare esente da critiche verso tale meccanismo sanzionatorio, mentre la pretesa di legittimità di sanzioni ripetute attraverso strumenti elettronici di rilievo in una situazione di oggettiva incertezza nella gestione della segnaletica come rilevato al punto 1. e frequenti modifiche alle regole della circolazione sulle strade cittadine sembra piuttosto essere improntata ad obiettivi di patrimonializzazione della trasgressione e, paradossalmente, potrebbe finire per favorire la trasgressione perché fonte di notevoli introiti e di scarsa efficacia educativa: fra accessi in Zona a traffico limitato e controlli delle corsie preferenziali si tratta di centinaia di migliaia di sanzioni ogni anno.
Appare chiaro e ingiustamente afflittivo l'esito di tale meccanismo che pesa in modo differente sui singoli conducenti o proprietari di veicoli non solo in ragione del loro comportamento, ma in ragione del tempo che impiega l'Amministrazione ad avvisarli delle infrazioni da loro commesse.
Dinanzi a tale fattispecie di ripetizione di condotte in violazione della stessa disposizione non soccorre l'istituto penalistico della continuazione (art. 81 codice penale) che com'è noto non è riconosciuta dal Codice della Strada e per le sanzioni amministrative. Ma nella legge 689/1981 è previsto all'art. 8 sia il caso di un'azione che viola più norme (comma 1), sia il caso di più violazioni con atti ripetuti di una sola norma, purché in esecuzione del medesimo disegno (comma 2). Inoltre all'art. 8 bis della legge 689/1981 è previsto l'istituto della reiterazione delle violazioni da parte dell'agente che richiederebbe però che la condotta fosse riconducibile ad una programmazione unitaria. Sembra non esservi pertanto nel nostro ordinamento una disposizione che consenta di attenuare la sanzione in caso di ripetizione di condotte di violazione della stessa norma e addirittura dello stesso specifico divieto posto nello stesso luogo con azioni ravvicinate nel tempo.
Esprime un principio utile al caso anche l'art. 198 del CdS, intitolato “Più violazioni di norme che prevedono sanzioni amministrative pecuniarie”, prevedendo che “Salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con una azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative pecuniarie, o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave aumentata fino al triplo”. 
La precisazione del II comma dell'art. 198 CdS può essere applicata al caso che ci occupa in quanto così dispone: “nell'ambito delle aree pedonali urbane e nelle zone a traffico limitato, il trasgressore ai divieti di accesso e agli altri singoli obblighi e divieti o limitazioni soggiace alle sanzioni previste per ogni singola violazione”. Tale disposizione è stata interpretata con particolare rigore da C. Cassazione, Cass. civ., Sez. VI - 2, Ordinanza, 16/12/2014, n. 26434, che ha ritenuto che “qualora siano poste in essere inequivocabilmente più condotte realizzatrici della medesima violazione, non può escludersi l'assoggettamento ad autonoma sanzione per ciascuna delle infrazioni successive alla prima (nella specie, è stata cassata la pronuncia di merito che, a fronte di plurimi ingressi indebiti in una zona a traffico limitato, avvenuti nella stessa giornata, ma a distanza temporale considerevole l'uno dall'altro, aveva ritenuto che il trasgressore fosse tenuto al pagamento di una sola sanzione pecuniaria)”. Che l'eccezione di cui al II comma dell'art. 198 CdS riguardi esclusivamente l'accesso alle Zone a traffico limitato, e non l'accesso alle corsie preferenziali, è chiaro dal testo della disposizione ed è stato ribadito da numerosi accertamenti giudiziali, anche di Cassazione e di Corte Costituzionale (ordinanza di rigetto 26.1.2007, n. 14). Si richiama anche la recente Cass. civ., Sez. II, Ord., 11/09/2018, n. 22028 secondo cui l'art. 198 II comma si applica tassativamente solo alle ipotesi di accesso alle ZTL; e, anche in tali fattispecie, si deve valutare se “le condotte dessero luogo a violazioni autonome per il solo fatto di esser state consumate ad orari diversi, trascurando di considerare che ad ogni accertamento non deve necessariamente corrispondere una contravvenzione, in particolare ove trattasi di condotte poste in essere sulla stessa strada entro un brevissimo lasso temporale, stante il carattere di durata e quindi unitario, delle predette condotte illecite (cfr., testualmente, Corte cost. 26.1.2007, n. 14)”.
Pertanto si ritiene che il passaggio in un periodo di tempo ravvicinato da una stessa porta a presidio di una corsia preferenziale possa rientrare nella fattispecie del I comma dell'art. 198 e soggiacere alla sanzione lì determinata. 

Si apprezza particolarmente l'intervento del Giudice fiorentino che ha voluto compiere una valutazione della applicabilità del principio del cumulo giuridico, visto che in sede di rilevazione a distanza non era possibile distinguere aspetti qualificativi della condotta. In tal senso anche la circolare del Ministero dell'interno del 17/11/2003, che riporta al trasgressore la facoltà di richiedere l’applicazione dell’art. 198 c.d.s.: “l'organo di polizia stradale dovrà contestare le singole violazioni, indicando per ciascuna infrazione la relativa sanzione, salva la facoltà per il trasgressore di richiedere successivamente al Prefetto l’applicazione dell'art 198 C.d.S., in caso di concorso formale”.

In ipotesi di ritenuta inapplicabilità di tale disposizione e ritenuta pertanto l'abnormità della conseguente moltiplicazione delle sanzioni afflittive a fronte di ripetuti errori dovuti alla mera ripetizione di una errata - e magari anche colpevolmente errata - comprensione della segnaletica. 

Un ragionamento analogo ha svolto il Giudice di Pace di Parma, sent. n. 1835/2015, RG 5376 + 6115/2015 in un caso analogo (circolazione con permesso di accesso scaduto e conseguenti plurimi passaggi dal controllo elettronico):
“nell'ordinamento giuridico italiano la sanzione, sia essa amministrativa o penale, ha principalmente funzione educativa, profondamente radicata nella tradizione giuridica del nostro paese. Appare quindi che la funzione educativa della sanzione , si voglia ritenere essa primaria o anche soltanto concorrente, non può esercitarsi sul soggetto fintanto che questi non sia stato reso edotto della erogazione della stessa. Conferma indiretta di tale orientamento del legislatore si trova anche nel disposto dell'art. 8 L. 689/1981, laddove di fronte ad un reiterarsi di violazioni, non prevede un reiterarsi di sanzioni, bensì un aggravamento della singola sanzione prevista, secondo il prudente apprezzamento del giudice. Nel caso in esame, il ricorrente ha avuto notizia della prima violazione effettuata soltanto in un tempo successivo alla commissione delle violazioni successive, sanzionate con i verbali di cui al presente ricorso, e cioè alla notifica della medesima”. 
A seguito di tale argomentazione il Giudice di Pace di Parma ha ritenuto conforme ai principi annullare i verbali successivi al primo, in ordine temporale di infrazioni, ritenendo che:
“Venendo egli ora condannato a pagare la sanzione relativa alla prima violazione, detta sanzione può svolgere la propria funzione educativa/dissuasiva soltanto sui comportamenti del ricorrente successivi, quantomeno, alla data di notifica dell'accertamento medesimo, ma non su quelli che hanno prodotto le altre sanzioni oggi opposte”.
Un caso altro caso in cui le reiterazione di ingresso in Ztl erano realizzate nella falsa supposizione di averne diritto (e invece era scaduto il permeso) ha consentito a Trib. Reggio Emilia, sent. n. 1330/2014, di affermare che "Chi dimentica di rinnovare un permesso, pur avendone diritto e senza che l'Amministrazione abbia comunicato l'imminente scadenza, sbaglia una volta sola in ragione di tale dimenticanza … mentre non possono ritenersi assistite dal necessario elemento soggettivo di contrasto con l'ordinamento, per dolo o per colpa, le successive violazioni integrate dai singoli accessi alla ZTL, atteso che esse traggono origine unicamente dalla precedente omissione”.
Inoltre secondo il Giudice di Pace di Pisa sent. n. 3398 del 2007 "la mancanza di contestazione immediata della prima infrazione ha comportato le successive violazioni, in quanto il conducente non ha compreso lo sbaglio; di talché solo la prima multa deve ritenersi legittima, annullando, per l'effetto, le altre".
Compenso del lavoro dei detenuti: in mancanza della indicazione del compenso ai sensi dell'art. 22 dell'Ordinamento penitenziario, spetta la retribuzione secondo i minimi stabiliti dai CCNL. (Tribunale di Firenze, GU del Lavoro, sent.17.9.2020)

Un ricorso a nome di un ex recluso nel carcere di Sollicciano ha ottenuto il riconoscimento delle differenze retributive fra la "mercede" corrisposta durante gli anni al detenuto per il lavoro svolto e il livello minimo delle corrispondenti categorie fissato dalla contrattazione collettiva. Come noto l'art. 22 dell'Ordinamento penitenziario, I comma, così dispone: 
“1. Le mercedi per ciascuna categoria di lavoranti sono equitativamente stabilite in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro. A tal fine è costituita una commissione composta dal direttore generale degli istituti di prevenzione e di pena, che la presiede, dal direttore dell'ufficio del lavoro dei detenuti e degli internati della direzione generale per gli istituti di prevenzione e di pena, da un ispettore generale degli istituti di prevenzione e di pena, da un rappresentante del Ministero del tesoro, da un rappresentante del Ministero del lavoro e della previdenza sociale e da un delegato per ciascuna delle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale.”

Nel vigore della disposizione citata, la retribuzione del detenuto avrebbe dovuto pertanto essere determinata dalla apposita commissione ed adeguata ad ogni rinnovo contrattuale della categoria di riferimento; in mancanza di adeguamento, resta il principio di legge del limite inferiore dei due terzi del trattamento economico di riferimento dei CCNL applicabili e pertanto il ricorrente chiede che il Giudice, rilevata l'insufficienza e illegittimità della retribuzione corrisposta, determini la retribuzione cui il detenuto lavoratore ha diritto, per i periodi in cui ha lavorato alle dipendenze dell'Amministrazione Penitenziaria, in applicazione del vincolo di legge ed in sostituzione dell'Amministrazione inadempiente. 
La norma invocata indica un minimo inderogabile e consente quindi alla Commissione preposta di determinare retribuzioni anche superiori ai due terzi del valore di riferimento, che a sua volta pure è un minimo non derogabile in pejus. 

Ciò comporta la piena vigenza, anche in tali condizioni normative, dei principi costituzionali, in particolare dell'art. 36 Cost., giacché “la norma censurata stabilisce solo una determinazione nel minimo del relativo trattamento economico, ma la disciplina vigente non esclude l'osservanza del criterio della relazione con la quantità e qualità del lavoro prestato, né dei bisogni della famiglia di chi lavora. Del resto, non può del tutto escludersi che, trattandosi di diritto soggettivo, il lavoratore possa adire il giudice del lavoro perché disapplichi l'atto determinativo della mercede, se questo importi violazione dei suddetti precetti costituzionali.” (C. Cost. 13.12.1988, n. 1087).

Pertanto si è chiesto al Giudice del Lavoro il riconoscimento del diritto alla retribuzione piena, nel rispetto dei minimi inderogabili della contrattazione collettiva, in mancanza dell'esercizio, da parte dell'Amministrazione, del potere-dovere di determinare la misura della mercede secondo le indicazioni di legge. Infatti il lavoro in carcere è uno degli strumenti più rilevanti di attuazione della funzione rieducativa della pena, art. 27 Cost., ed una sua retribuzione rispondente ai bisogni del lavoratore e della sua famiglia, prospettiva che accomuna, ex art. 36 Cost., il lavoro svolto in regime di detenzione con il lavoro svolto in libertà, discende dall'indiscutibile rapporto sinallagmatico tra prestazione e retribuzione ed acquista per il lavoro del detenuto un significato peculiare, in quanto un trattamento deteriore che fosse motivato dalle condizioni di detenzione finirebbe per sottrarre ingiustamente alla sua famiglia risorse cui ha diritto in quanto soggetto co-beneficiario della misura “sufficiente” della retribuzione del lavoro del congiunto. 

A sostegno della tesi che pare ragionevole e conforme ai principi della normativa nazionale si rintracciano gli art. 71 - 77 delle Regole minime Onu e l’art. 26, I c., delle Regole penitenziarie UE di cui alla Raccomandazione 2/2006 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Inoltre gli artt. 20 Ord. penit., 72 Regole minime Onu e 73 Reg. penit. europee chiedono che l’organizzazione del lavoro in carcere rifletta quelli della società libera per preparare i detenuti alle normali condizioni del lavoro libero e favorirne il reinserimento sociale.
Si rileva peraltro che la Commissione prescritta dall'art. 22 Ord. Pen. cit. è intervenuta un'ultima volta nel lontano 1993 per determinare il valore delle mercedi in base ai rinnovati Contratti collettivi, fissando le retribuzioni dei detenuti che avrebbero dovuto essere applicate solo per un semestre dello stesso '93, per poi esser nuovamente adeguate, e stabilì che spettasse all'operaio qualificato una retribuzione pari all'88,20 % della paga base ed il 67,29% della contingenza previsti per la categoria D del CCNL; all'operaio comune l’84,48% della paga base ed il 67,18% della contingenza previsti per la categoria E del CCNL; al tirocinante l’80% della paga base e contingenza spettanti al detenuto operaio comune. 

Jobs Act: una regressione nella tutela dei diritti dei lavoratori (4.8.2014)

In questo scorcio di legislatura i due disegni di legge forse più rilevanti, su cui la maggioranza governativa vuol mostrarsi più impegnata, portano due numeri in sequenza: il n. 1428 è il “jobs act”, un ddl di delega al governo per ridisegnare i contratti di lavoro, gli ammortizzatori sociali e le politiche per l’impiego; il n. 1429 è la riforma costituzionale, un corposo intervento sulla Costituzione per togliere funzioni ed elettività al Senato, rafforzare il governo e modificare il titolo V.


Le intenzioni dei due ddl sono molteplici, ma alcune senz’altro chiare: ridurre la rappresentatività delle istituzioni, dare mano libera all’esecutivo (chiunque vinca la lotteria con l’Italicum: le opposizioni che punterebbero su una politica economica e fiscale radicalmente diversa sono tenute fuori gioco), accrescere la flessibilità del lavoro e ridurre il peso degli ammortizzatori sociali sulla finanza pubblica, rendere gli organismi di garanzia (che vigilano sulla conformità dell’ordinamento ai principi costituzionali) omogenei al disegno governativo.


Nelle intenzioni – ovvero al netto degli emendamenti proposti da opposizioni interne o esterne alla maggioranza governativa che la pregiudiziale dei vincoli di bilancio ex art. 81 Cost. sta falcidiando già in Commissione Lavoro al Senato1 – il “jobs act” vuol rendere più flessibile il lavoro, non investe un euro sugli ammortizzatori sociali (anche a causa del reperimento di fondi straordinari per la detrazione fiscale di 80 euro escogitata prima delle elezioni europee), ridisegna un po’ i centri per l’impiego e altri strumenti per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro.


Strettamente legato al “jobs act”, anzi suo primo assaggio, è stato il DL Poletti, n. 34/2014, sul contratto a termine e sull’apprendistato che ha sostanzialmente liberalizzato il contratto a termine rendendolo acausale, ovvero cancellando le ultime disposizioni che ancora restavano a delimitarne l’utilizzo entro i limiti di una almeno dichiarata e dimostrabile connessione della scadenza del rapporto con esigenze organizzative e produttive (ora si può semplicemente apporre un termine ai contratti e farli durare con lo stesso lavoratore fino a 36 mesi, superabili in diversi settori o per deroga contrattuale, e entro questo termine si può fare sino ad 8 rinnovi dello stesso contratto e un numero enorme di contratti, centinaia); quanto all’apprendistato si è tolto ogni vincolo formativo, lasciando però i vantaggi fiscali e di riduzione della retribuzione, un vero scandalo.


Non è di poco interesse vedere come un intervento su un tema così rilevante come il contratto a termine, rilevante in ogni paese europeo e non in tempi di spasmodica e miope ricerca della riduzione dei costi del lavoro per motivi concorrenziali e quindi di redditività delle imprese2, sia stato approvato con decreto legge 34 del 20 marzo 2014 e presentato lo stesso giorno alla Camera che lo ha assegnato alla commissione Lavoro che lo ha esaminato e passato all’Aula dove l’esame è durato per sei sedute ed è stato approvato il 24 aprile 2014; dunque al Senato è stato nelle varie Commissioni Lavoro, Affari Costituzionali, ecc., dal 29 aprile al 5 maggio, quindi è andato in Aula ed è stato approvato, con modificazioni, il 7 maggio: pertanto è dovuto tornare alla Camera nel nuovo testo approvato dal Senato, nuovi esami in Commissioni e approvazione definitiva il 15 maggio 2014. Questi, se c’è una volontà politica e una maggioranza che sostiene l’indirizzo governativo, i tempi di approvazione ripeto con modifiche. Velocizzarli vuol dire impedire il dibattito pubblico.


Contro queste disposizioni, dopo un tentativo ostruzionistico dei parlamentari di Sel e M5S, si sono levate molte critiche ed è stata presentata una denuncia di infrazione di direttiva comunitaria alla Corte di Giustizia dell’UE da parte dell’associazione nazionale dei Giuristi Democratici. Nella denuncia dei G.D. si evidenziano i chiari profili di violazione della direttiva sui rapporti a termine, n. 1999/70, che furono valutati già nel 2000 quando i radicali proposero una abrogazione radicale della legge 230/1962 che avrebbe negato la tutela chiesta dalla direttiva, non diversamente da quanto fa il DL 34 rispetto alle disposizioni dirette a disincentivare il fenomeno: ebbene, la Corte costituzionale dichiarò allora non ammissibile quel referendum perché avrebbe lasciato il nostro ordinamento in contrasto palese con la normativa comunitaria. Altro parametro interessante è quello dell’ordinamento greco che pure aveva un limite solo temporale (di 24 mesi) all’utilizzo del contratto a termine e che ugualmente è stato ritenuto illegittimo da due sentenze della Corte di giustizia europea3.


In sostanza con queste innovazioni si attua a) la cancellazione definitiva di ogni necessario riferimento a “ragioni oggettive” che giustifichino l’assunzione a tempo determinato invece che indeterminato; né serviranno “ragioni oggettive” che giustifichino la proroga consentita fino a 8 volte consecutive per ciascun contratto; b) l’eliminazione di alcun limite al numero di contratti sottoscrivibili: i GD nella denuncia ipotizzano “un primo contratto di 14 giorni e 8 successive proroghe di due giorni per un totale di 30 giorni complessivi: sarebbero ben possibili 36 successivi contratti (purché intervallati da almeno 10 giorni non lavorati) e 288 proroghe tra le medesime parti sulla stessa posizione lavorativa senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi l’assunzione precaria”; inoltre, fanno notare, manca “per larga parte dei lavoratori italiani anche un qualsivoglia termine massimo di utilizzabilità con tale tipologia contrattuale precaria e l’assenza comunque di termini certi, in quanto anche per le tipologie contrattuali per cui la legge dispone il tetto dei 36 mesi esso è sempre derogabile tramite accordo sindacale”.


Il risultato è che il datore di lavoro – che purtroppo comunque non assumerà, ma se volesse – potrà assumere il lavoratore prima come apprendista con grandi risparmi e senza formarlo4, poi fargli contratti a termine per altri 36 mesi e infine usare il contratto “Ichino” che prevederà probabilmente un patto di prova fino a tre anni. Il precariato si estende a fette importanti della vita lavorativa.


A fronte di ciò, come detto, nel ddl 1428 non sono previste forme di ammortizzatori sociali estese a tutte le forme di contratto, ovvero per disoccupazione di ogni provenienza, ma anzi si aggravano le limitazioni esistenti dopo la riforma Fornero legge 92/2012. Inoltre si accentua la tendenza assicurativa del sistema di ammortizzatori, legandolo alla carriera contributiva del lavoratore, invece di farlo gravare sulla fiscalità (o contribuzione) generale. Le risorse per le politiche attive restano inalterate, nel ddl si pensa solo ad un riordino organizzativo, quando piuttosto l’Ente pubblico ISFOL denuncia chiaramente il livello irrisorio di risorse dedicate dallo stato italiano alle politiche attive per l’impiego (www.isfol.it, studio del 14.3.2014).


Altro intervento davvero dirompente (ma, va da sé, a costo zero) è il “compenso orario minimo” che sembra introdurre un sistema generalizzato per evitare lo sfruttamento dei lavoratori in una fase di bassa occupazione, ma in realtà indebolisce lo strumento della contrattazione collettiva che già c’è: si finge infatti di dimenticare che nell’ordinamento italiano esiste già il “salario minimo” grazie alla giurisprudenza costituzionale e di merito che ha applicato l’art. 36 Cost. e la retribuzione sufficiente e proporzionata in ragione del lavoro prestato e delle esigenze del lavoratore. Introdurre un “compenso orario minimo” vuol dire dare una tutela ben minore e circoscritta e al contempo attaccare frontalmente la Contrattazione collettiva, superare i CCNL.


Le critiche dei sindacati, dinanzi a prospettive di questa portata, sono molto tenere. Più decise quelle avanzate da alcune associazioni, fra cui i Giuristi Democratici: gli atti sono inutilmente acquisiti dalla Commissione Lavoro del Senato e si trovano su http://www.senato.it/Leg17/4497.


Veniamo alla proposta di “contratto a tutele crescenti” di cui si è parlato nei mesi scorsi: è un’idea di Pietro Ichino, noto docente di diritto del lavoro e senatore di Scelta Civica, trasfusa in un emendamento all’art. 4 del ddl 14285. La proposta, vecchia di alcuni anni e simile ad altra degli economisti Boeri e Garibaldi, giunge ora in parlamento come emendamento e integrazione di peso al testo più in vista del governo Renzi e ha qualche chance di essere approvata, visto il viatico introdotto in sede di conversione del DL 34/14 sul contratto a termine6 che sostanzialmente dice che quel progetto è fatto proprio dalla maggioranza.


L’idea di fondo di Ichino è di evitare che l’unico contratto a disposizione in questi tempi di crisi economica e occupazionale sia il contatto a termine (reso così agibile e invitante dal DL 34) e che il datore debba avere la possibilità di scegliere senza timore un’assunzione a tempo indeterminato da cui possa però recedere a piacimento nei primi 36 mesi: assomiglia molto ad un altro contratto a termine camuffato, in realtà. Lo strumento formale sarebbe la sospensione per i primi tre anni delle tutele dell’art. 18 Statuto Lavoratori (quel che resta dopo le modifiche della legge Fornero n. 92/2012), ipotesi su cui la segretaria CGIL Camusso ha già espresso un’apertura, per consentire al datore di recedere liberamente, dietro il pagamento di una lieve sanzione al lavoratore, per ora si è proposto un’indennità pari a due giorni di retribuzione per ogni mese lavorato: così, nell’ipotesi peggiore, se si è lavorato tutti i 36 mesi a libera recedibilità, siamo circa a due mesi e mezzo di indennizzo, pari alla sanzione minima della legge 604/66 per il licenziamento illegittimo. Una sanzione davvero tenue.



Questa ulteriore precarizzazione introdurrebbe una deroga corposa alla tutela del rapporto di lavoro, chiamando a tempo indeterminato un contratto che di fatto è a libera recedibilità per i primi 36 mesi. Per ora la previsione di Ichino è invisa ai parlamentari del PD, lo stesso ministro Poletti teme ostacoli per la esplicita deroga all’art. 18, ma la previsione di questo nuovo tipo di contratto già nell’art. 1 della legge di conversione del DL 34/2014 non può non esser letta come un impegno ad andare avanti.


Comunque la normativa offre già oggi una flessibilità spinta e ammortizzatori sociali e politiche di formazione del tutto inadeguate, ben lontane dalla sbandierata flexicurity applicata in Danimarca e Olanda in cui quello che negli anni ’90 era chiamato il “golden triangle” è appunto costituito non solo da flessibilità e mobilità del mercato del lavoro, ma anche dagli altri due poli indispensabili: un sistema di welfare solido ed esteso ad ogni forma di disoccupazione e politiche attive del lavoro che agevolano l’ingresso o il rientro nel mondo del lavoro. Il modello italiano non accenna a definirsi che nel primo elemento, la flessibilità, e scoprire che il Jobs act è basato su una costruzione del welfare “a costo zero” svela purtroppo la volontà di effettuare solo tagli, deregolamentazione, precarizzazione.



L’effetto sociale della flexicurity è ben diverso a seconda che il modello sia applicato così come suggeriscono le esperienze Nord europee, oppure dimidiato, prendendo quel che si vuole (e si può): la sola flessibilità, ovvero la libera recedibilità del datore di lavoro, unita ad un intervento sugli ammortizzatori sociali a costo zero (quindi con nessun rafforzamento degli strumenti esistenti, ma solo con scarse rimodulazioni ed un risparmio sulla fiscalità generale che ne ridurrà il finanziamento) provocherà un impoverimento della classe lavoratrice.



Il bilanciamento del modello sarebbe invece la sua forza: lavori meno stabili, non per la vita, ma con chance di riqualificazione e formazione, ammortizzatori generalizzati e vincolati all’impegno del lavoratore nel proprio reinserimento, agevolazioni all’assunzione, hanno in fondo effetti redistributivi e sostengono la domanda favorendo gli investimenti nel settore produttivo. Se si priva il sistema del sostegno ai disoccupati si impoverisce una categoria illudendosi di arricchire l’altra, è il modello neoliberista che ha già dato prova di essere fallimentare proprio perché squilibrato.



Quando in autunno si riprenderà l’esame del ddl 1428 – e poi dei decreti delegati da approvare entro sei mesi dalla delega – si sarà ormai approvato in prima lettura sia al Senato che alla Camera un progetto di riforma costituzionale che farà percepire come indebita intromissione ogni critica parlamentare al volere del governo: forse il vero obiettivo di questa stagione di cronoprogrammi, tagliole, canguri e date fisse per lo stravolgimento dell’assetto istituzionale democratico è proprio la delegittimazione della dialettica parlamentare e sociale, la ricerca del consenso attraverso il dialogo diretto con i cittadini, senza intermediazioni, per cui le riforme basta annunciarle ed ogni ostacolo è contro il bene della nazione.



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1http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=ListEmendc&leg=17&id=44250


2Un’accurata, anche se ideologica, analisi della situazione in Europa (prima del dl 34/2014 italiano) su http://www.bollettinoadapt.it/old/files/document/16473delconte_fratell.pdf


3Il testo integrale della denuncia con tutti i riferimenti normativi e giurisprudenziali è su http://www.giuristidemocratici.it/post/20140401200444/post_html


4Un emendamento al ddl 1428 proposto da Ichino all’art. 4, comma 1, introdurre questa “sanzione”: «e-bis) in materia di apprendistato previsione, quale sanzione per l’inadempimento grave dell’obbligo di formazione di cui sia responsabile esclusivamente il datare di lavoro, della conversione del contratto di apprendistato in contratto di lavoro ordinario a tempo determinato, il cui termine finale coincide con quello originariamente previsto per il periodo di apprendistato.»


5«1. Il Governo è delegato ad adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge un decreto legislativo contenente un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, con la previsione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a protezione crescente, senza alterazione dell’attuale articolazione delle tipologie dei contratti di lavoro, secondo i criteri che seguono:


a) la nuova disciplina legislativa deve essere redatta in modo da allinearsi agli standard stabiliti dalle direttive europee e dalle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, e da soddisfare i requisiti di semplicità e chiarezza indicati nel Decalogue for Smart Regulation emanato il 12 novembre 2009 dal Gruppo di studio di alto livello incaricato della sua predisposizione dalla Commissione Europea, in particolare i requisiti dell’agevole lettura da parte di tutti i destinatari della disciplina stessa e dell’agevole traducibilità in lingua inglese;


b) la nuova disciplina legislativa deve essere redatta in forma di novella degli articoli da 2082 a 2134 e da 2239 a 2245 del Codice civile, avendosi cura di collocare il più possibile le nuove norme nella stessa posizione delle norme omologhe precedenti, in modo da rendere il più facile possibile il loro reperimento.».


Conseguentemente sostituire la rubrica dell’articolo con la seguente: «(Delega al Governo per l’emanazione di un testo unico semplificato delle norme che disciplinano i rapporti di lavoro)»


6L’art. 1. dettato dalla legge di conversione n. 78/2014 dice: “Considerata la perdurante crisi occupazionale e l’incertezza dell’attuale quadro economico nel quale le imprese devono operare, nelle more dell’adozione di un testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro con la previsione in via sperimentale del contratto a tempo indeterminato a protezione crescente e salva l’attuale articolazione delle tipologie di contratti di lavoro…”


Dalla Resistenza alla Costituzione: legittimazione di un progetto di libertà e uguaglianza (23.10.2019)

Questa è la mia “postfazione” al bel volume di Renzo Forni e Francesca Giovannini 
 “Antifascisti e Partigiani di Impruneta – storie, testimonianze e documenti inediti", Florence Art Edizioni
.

 La rifondazione dello stato e della società dopo la caduta della dittatura fascista e la fine della II Guerra Mondiale è avvenuta in un clima al contempo drammatico e felice: sulle macerie della guerra si percepiva l’obbligo morale di distinguersi dal passato di repressione e violenza del regime e la libertà di farlo con la guida di un’umanità nuova, emersa durante gli anni della Resistenza, unita da un nemico comune che non era solo un esercito invasore, ma l’esperienza di una sudditanza.
 Alla formale caduta del fascismo decretata dal voto al Gran Consiglio del 25 luglio 1943 – cui seguirà la nomina immediata da parte del Re del maresciallo Pietro Badoglio a capo del governo che si affretta a dichiarare che“la guerra continua” – segue l’armistizio dell’8 settembre che finalmente dichiara cessate le ostilità contro gli Alleati. 
 Lo Stato si ritrae, emerge una moltitudine che sarà presto capace di acquistare una legittimità formale e morale, ma intanto alcuni giuristi dubitano: Santi Romano, fra i massimi giuristi del tempo, nel 1944 accusa i partiti antifascisti di creare instabilità, uccidere e perseguitare gli avversari, di non avere infine legittimità, in quanto responsabili del gesto rivoluzionario, nel dettare norme giuridich
1
e

Intanto altri scriveva, dopo aver passato in rassegna le forze della resistenza nell’Europa occupata dai nazisti,“che cosa vogliono questi uomini? Per che cosa combattono? Vogliono tutto ciò che il fascismo e il nazismo non sono. Libertà, giustizia, pace, fraternità, patria, ecco le parole che risuonano in fondo a tutti i cuori dei combattenti”
2

 

Si trova infatti nella “scelta”3 dei partigiani che sono per la democrazia e contro il nascente fascismo, in qualche caso sin dal Biennio rosso del 1919-21 e della reazione alle prime violenze fasciste, ma soprattutto nella scelta di quanti prendono le armi l’estate del ’43 dopo la caduta del fascismo (e la scelta cruciale sta qui nel rifiutare il reclutamento della Repubblica Sociale di Salò) il gesto collettivo che fonda un nuovo ordine morale e costituzionale.

Tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 il re a Brindisi e il redivivo fascismo della Repubblica di Salò esercitano una sovranità solo formale, di fatto domina a Nord l’occupazione nazista, a Sud l’esercito degli Alleati. Anche i Comitati di Liberazione Nazionale (nati già il 9 settembre ’43) sembrano raccogliere una legittimazione dal basso, dalle vicende individuali della resistenza di singoli contro il nazifascismo, e fra i Comitati di Liberazione è da sottolineare l’indipendenza e autonomia del Comitato Toscano che, oltre ad essere come gli altri organismo di direzione della resistenza, si impose, senza intermediari, come struttura di governo del territorio liberato dall’occupazione nazifascista. Tra il 1943 e il 1945 ci sarebbe solo la sovranità individuale dei partigiani che hanno impugnato le armi per riempire il vuoto della sovranità aperta dallo sprofondamento dello Stato fascista; e qui starebbero le fondamenta del nuovo patto di cittadinanza secondo un recente saggio
4, una cesura imposta da una moltitudine che insorge e crea una legittimità del nuovo agire giuridico. E solo in un secondo tempo si organizzeranno i partiti, fino ad arrivare al momento elettorale del 2 giugno 1946 in cui si votò il referendum fra monarchia e repubblica e si elesse l’Assemblea costituente già prevista dal Decreto luogotenenziale del 25 giugno 1944; sul momento partitico, nato dai CLN, come unico davvero legittimante poneva invece l’accento la produzione giuridica tradizionale, primo fra tutti Costantino Mortati già nel 1945.
Nell’assemblea costituente, eletta con sistema proporzionale, prevalsero i tre grandi partiti di massa: la Democrazia Cristiana col 35% dei voti, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (20,68%) ed il Partito Comunista Italiano (18,93%); pochi i voti alla destra (Liberali, Qualunquisti, Monarchici e UDN), pochissimi al Partito d’Azione (1,45% e 7 seggi). 
I lavori della costituente, composta da 556 parlamentari, durarono quasi 18 mesi eleggendo al proprio interno una Commissione di 75 membri incaricata di redigere il testo della Carta; questo fu proposto a gennaio 1947 all’assemblea generale per la discussione e sarà approvato il 22 dicembre 1947 con 458 voti a favore su 520 votanti (88% di consensi).
La nostra Costituzione è il frutto del confronto
5 tra diverse culture politiche, socialista e comunista, liberaldemocratica e cristiano sociale. Tutte dettero un contributo importante, ma riuscendo a generare un “compromesso” fra le diverse ispirazioni dei partiti che le esprimevano: i “partiti totali” esaltati da Mortati riuscirono cioè ad esprimere una volontà comune, non restarono parti, espressione di ideologie o interessi di classe, ma disegnarono un comune principio costituzionale6.
Le premesse ideologiche del confronto posero sul piatto la tendenza operaista e statalista delle culture socialiste e marxiste, quella derivante dalla rivoluzione francese, ma aggiornata dalla sensibilità sociale e dell’equilibrio fra diritti sociali e di libertà, della cultura liberaldemocratica (e liberalsocialista) e quella del rispetto della persona e delle formazioni sociali della formazione cristiano sociale, la più recente nell’espressione partitica. Ma la sintesi è un passo avanti, non un collage. 
La nostra costituzione si presenta anzitutto come una delle più avanzate espressioni del costituzionalismo democratico il cui paradigma sta nel riconoscere la rappresentatività delle istituzioni, strumento di espressione della sovranità popolare, e la piena affermazione e tutela sia dei diritti di libertà che dei diritti sociali; ma nella particolare declinazione della “democrazia sociale” che è insieme uguaglianza sostanziale, progetto di trasformazione e partecipazione popolare. E si consegna al legislatore ordinario, alle maggioranze future, non solo un vincolo procedurale e formale secondo il quale la legge è tale se approvata dalla maggioranza dei parlamentari eletti e promulgata dal Presidente della Repubblica, ma anche un vincolo di contenuto
7: la Costituzione, quale norma sovraordinata e primaria, definisce e tutela principi e diritti fondamentali e garantisce la loro inviolabilità.
Fra i diritti e vincoli di maggior rilievo c’è il riconoscimento dei diritti fondamentali ed il principio di solidarietà (art. 2), completato e specificato da molti richiami della prima parte, dalla libertà personale dell’art. 13 (baluardo contro ogni repressione poliziesca) al diritto di espressione del pensiero dell’art. 21 (una delle tante antitesi rispetto al regime fascista del pensiero unico); l’uguaglianza formale dell’art. 3 (I comma, principio essenziale, se inteso come divieto di discriminazioni ed insieme alla tutela della dignità della persona) e quella sostanziale (al II comma che supera l’astratta uguaglianza dei soggetti di diritto per imporre alla repubblica il compito di realizzare il pieno sviluppo della persona mediante l’abbattimento degli ostacoli economici e sociali: una trasformazione sociale, se non una rivoluzione). Nei rapporti economici (Titolo III della I parte) si trovano poi precetti che disegnano da un lato il primato dei diritti sociali, una radicale innovazione delle costituzioni del XX secolo – il diritto alla salute, all’istruzione, il diritto ad un lavoro adeguatamente retribuito e alle prestazioni a sostegno del lavoratore inabile – non subordinati a vincoli economici e fonte anzi di indirizzo di politica economica (fino a stabilire un regime misto, di intervento in prima persona dello Stato nell’economia, non come mero regolatore), e limite e funzione delle libertà economiche (imprenditoriale, art. 41) e della proprietà (art. 42); dall’altro il ruolo dello stato di protagonista della vita economica nazionale: è titolare d’imprese e proprietà, le acquisisce nell’interesse generale (art. 43), e “riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende” (art. 46).
Un veloce sguardo alla II Parte ci mostra il disegno istituzionale incentrato sul primato del parlamento: la Carta è scritta da partigiani ed esuli, minoranze perseguitate che si fanno maggioranza costituente, da giuristi amanti delle libertà politiche e civili e anche perciò è attenta all’equilibrio fra i poteri, alla centralità del parlamento; e costruisce ad esempio l’originale figura di un presidente della repubblica che, pur privo di poteri interdittivi, ha strumenti di persuasione e poteri di nomina che gli consentono di esercitare il ruolo di garante della legalità costituzionale; ruolo che in modo più diretto, ma solo eventuale, se investita dagli altri organi, svolge la Corte costituzionale.
La Costituzione ha dovuto subito affrontare il dibattito sull’effettiva vigenza delle sue norme: prima negata dalla Cassazione, presto prevalse l’affermazione da parte della Corte costituzionale (con la prima sentenza del 1956; in dottrina V. Crisafulli) dell’immediata e indistinta cogenza sia delle norme “precettive”, sia delle norme “programmatiche” (da attuare con legislazione ordinaria) di ogni disposizione della Costituzione. 
Ma la Carta è stata, sin dalla sua entrata in vigore, oggetto di contesa fra le forze politiche: l’unica stagione di attuazione deve purtroppo circoscriversi agli anni 1962-1978 durante i quali, compiendo una notevole stagione culturale e politica, si nazionalizza l’energia elettrica L. 1643/1962, si innova la disciplina dei licenziamenti Legge 604/1966, si introduce il divorzio L. 898/1970, si approva lo statuto dei lavoratori L. 300/1970, si regola il referendum abrogativo L. 352/1970, si approva l’ordinamento regionale L. 281/1970, si riconosce il diritto all’obiezione di coscienza L. 772/1972, si approva il nuovo diritto di famiglia L. 151/1975, si regola l’interruzione volontaria della gravidanza L. 194/1978, si istituisce il finanziamento pubblico dei partiti L. 195/1978, il trattamento delle malattie mentali L. 180/1978, il servizio sanitario nazionale L. 833/1978: questi sono alcuni dei momenti attuativi della costituzione, vere e proprie “riforme” del nostro ordinamento giuridico
8, che talvolta rimossero disposizioni di matrice liberale o fascista nettamente in contrasto con la carta del 1948, ma più spesso introdussero diritti e tutele funzionali alla realizzazione dei principi di uguaglianza, solidarietà sociale, libertà. 
Subito dopo la stagione delle riforme è iniziata una lunga fase di “congelamento”
9cui sono seguiti tentativi di modifica formale di parti anche ampie della Costituzione, soprattutto della II parte. Peraltro si è arrivati solo alla approvazione parlamentare dei progetti del centrodestra nel 2005 (che avrebbe introdotto un radicale decentramento, di “devolution”, e un forte squilibrio dei poteri a favore dell’esecutivo) e del centrosinistra nel 2015 (che avrebbe concentrato il potere legislativo nella sola Camera dei deputati in dialogo stretto con il governo, riducendo il Senato a fioca voce delle autonomie locali); entrambi questi due tentativi di modifica sono stati bocciati, nel 2006 e nel 2016, dal referendum confermativo previsto dall’art. 138 Cost. dimostrando da un lato una inaspettata tenuta della Costituzione nel sentimento popolare, dall’altro una intima debolezza dei tentativi di modifica promossi da maggioranze governative che vogliono ridurre la matrice pluralista e parlamentarista della Costituzione.
La sfida dei prossimi anni, dopo un progressivo indebolimento delle istituzioni rappresentative a favore degli esecutivi ed un diffuso sacrificio dei diritti sociali per perseguire obiettivi di stabilità finanziaria e monetariaa, sembra che sarà l’impegno per l’attuazione della nostra costituzione nel nostro ordinamento e nella definizione del contenuto degli ordinamenti sovranazionali
10.


________


1S. Romano, Rivoluzione e diritto, 1944, in Frammenti di un dizionario giuridico, 1947.

2C. L. Ragghianti, articolo sulla Libertà dell’estate 1944, periodico toscano del Partito d’Azione.

3Il saggio tuttora più ampio e meditato sulla “scelta” ritengo sia Una guerra civile – saggio storico sulla moralità nella resistenza di Claudio Pavone, 1991.

4G. Filippetta, L’estate che imparammo a sparare, Storia partigiana della Costituzione, 2017.

5L’alto dibattito si può leggere negli Atti dell’Assemblea consultabili in rete su archivio.camera.it

6Vedi il saggio di M. Fioravanti Il compromesso costituzionale, Il Ponte, aprile 2009. Cfr. anche l’emblematico “rifiuto” del concetto di  compromesso di P. Togliatti, Discorsi alla costituente, 1973, pag. 9.

7L. Ferrajoli, La democrazia costituzionale, 2016.

8Vere “riforme”, attuazione della costituzione, ancorate al concetto di “riformismo” che indica un progresso nell’organizzazione economica e sociale che interviene sul sistema capitalistico senza abbatterlo, come invece farebbe la rivoluzione; saranno poi chiamate spesso riforme anche le involuzioni neoliberiste che si produrranno non solo in Italia dagli anni ’90 in poi, in specie privatizzazioni, deregolamentazioni, rimozioni di diritti sociali faticosamente conquistati nei decenni precedenti.

9Dopo il “congelamento” del periodo 1948-1956, quando iniziò ad operare la Corte costituzionale, si può dire tale anche il ventennio 1980-2001 in cui si arrestò il processo riformatore e si avviarono, sulla spinta del neoliberismo angloamericano, riforme reazionarie in molti campi.

10A. Algostino, Democrazia sociale e libero mercato: Costituzione italiana versus “costituzione europea”?, in Costituzionalismo.it, saggio n. 243, 2007.

__________________________________



Abstract del volume:




Alla vigilia del 75° anniversario della Liberazione di Firenze, la Sezione ANPI di Impruneta ha raccolto le storie di coloro, antifascisti e partigiani imprunetini, che negli anni della dittatura e della guerra furono protagonisti. Il volume è il risultato di un’approfondita ricerca condotta principalmente all’interno dell’Archivio dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea – nell’Archivio del Comune e nella sezione “Casellario Politico Centrale” dell’Archivio Centrale dello Stato – che ha permesso di ricavare i nomi degli antifascisti imprunetini che durante il Ventennio furono inseriti nella lista del casellario, lo strumento per la schedatura di massa dell’allora governo fascista e dei partigiani del territorio ai quali, alla fine della guerra, fu ufficialmente riconosciuto il ruolo avuto nella lotta di Liberazione.

Il volume infatti, oltre a inquadrare Impruneta all’interno del contesto storico e sociale del periodo di riferimento raccontando gli anni del Ventennio, l’organizzarsi dell’attività antifascista e la Resistenza, si arricchisce delle biografie dei cittadini che si opposero al fascismo e alla dittatura e dei partigiani che combatterono la guerra di Liberazione, raggiungendo, subito dopo l’8 settembre 1943, le prime bande armate che si erano rifugiate nelle zone boscose e montuose del preappennino e della Toscana centrale.

La memoria e i ricordi della comunità hanno consentito la restituzione di storie di vita e hanno dato la possibilità di omaggiare coloro che, a rischio della propria vita, continuarono ad affermare le proprie idee non abbracciando l’ideologia fascista, nonostante per anni avessero subito, intimidazioni, arresti e vessazioni di ogni genere. Attraverso queste biografie e le vicende dello specifico contesto locale, emergono gli aspetti più drammatici del sistema repressivo del fascismo e del regime che hanno riguardato la storia nazionale e anche i percorsi personali di chi scelse di opporsi.

Questa pubblicazione restituisce infine un pezzo di storia del territorio di Impruneta negli anni della dittatura e della guerra fino ai mesi della Liberazione contro il nazifascismo, un tassello quindi del più ampio quadro complessivo della Resistenza fiorentina, fondamentale non solo per conoscere il nostro passato, ma anche per affrontare con maggiore consapevolezza il nostro presente.

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